La donna che ha cambiato la storia della fotografia
New York, anni Quaranta.
Vivian Maier cammina tra la folla, capelli corti sotto un cappellino, macchina fotografica stretta al petto. Nessuno la nota, e forse è proprio quello che vuole. Percorre le vie e si riflette nelle vetrine dei diner e dei negozi all’angolo della 55th Street. Scatta la foto al bimbo che piange vicino alla mamma, in attesa alle strisce pedonali. Poi si volta e vede due innamorati che si sfiorano con le mani.
“Vivian, Vivian!” chiama una bambina. È una delle figlie dei suoi padroni. Per un attimo si dimentica di essere una semplice tata. Lei è prima di tutto una fotografa.
“Vieni, Belle, ecco come inquadrare e come scattare la foto”, le insegna con calma.
Non ha mai pensato di vendere le sue istantanee: scatta senza scopo economico, solo per puro e crudo amore per la fotografia. Sbaglia? Sua madre glielo ripeteva in continuazione prima che iniziasse a fare la tata:
“Ti devi sposare, non badare alle foto… Non camperai con quello. Mettiti a posto e poi vedi…”
Vivian non aveva mai ascoltato quelle parole; le aveva lasciate nelle pellicole della memoria. Anzi, aveva fatto di più: aveva deciso di sfidare il tabù della fotografia come prerogativa maschile. E poi aveva risposto a un’inserzione sul New York Herald Tribune ed era diventata tata con la sua Rolleiflex.
La notte in cui iniziò la sua carriera da tata, New York, era un po’ come una stanza senza tende: entrava dappertutto. Vivian aprì la finestra, ma non per romanticismo. Voleva osservare la città dalla stanza che sapeve di minestra e di polvere.
Sul comodino, la Rolleiflex. Un rullino ancora da sviluppare. Lo guardava come si guarda una promessa che non si è sicuri di voler mantenere.
Ogni foto, per lei, era una confessione. Ma senza preti.
Annotò qualcosa sul suo quaderno:
“New York è un cielo luminoso. Io sto bene con i bimbi in questa famiglia. Non so chi di noi abbia più bisogno dell’altro.”
La mattina dopo uscì presto di casa. Central Park era ancora mezzo addormentato, i giornali umidi di rugiada. Vivian camminava con passo veloce, come chi non voleva arrivare da nessuna parte. Si fermò, scattò una foto a un uomo che leggeva il Times. L’uomo non la notò nemmeno.
Vivian sorrise: la discrezione era la sua superpotenza.
Più tardi, nel bagno che usava come camera oscura, l’immagine prese forma.
Si asciugò le mani, si guardò allo specchio.
La luce le tagliava il viso in due: la tata e la fotografa. Due persone che convivevano in silenzio nella stessa pelle.
Sorrise piano.
Forse non c'era bisogno di scegliere.
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Questa briciola si ispira alla vita di Vivian Maier (1926-2009).
Pochi giorni fa la storia di questa straordinaria fotografa ha ricominciato a brillare. Dove? In Valsesia, dove l'Officina Fotografica di Gattinara ha voluto dedicarle una serata.
E oggi Vivian cosa direbbe? Difficile da immaginare. Guardandosi intorno vedrebbe tante donne che abbassano lo sguardo. Per paura, per solitudine, o soprattutto per sentirsi accettate da mariti, padri e fratelli.
Vivian, a distanza di decenni, ci insegna invece che si può dire “sì”, anche quando tutti intorno ti dicono: “Non puoi, non fa per te, non riuscirai mai perché sei una donna.”
E ci ricorderebbe soprattutto che si può camminare a testa alta, con il proprio sogno stretto al cuore, e lasciare un segno silenzioso ma potente nel mondo.
Per approfondire la vita di Vivian si consiglia la lettura di "Dai tuoi occhi solamente" di Francesca Diotallevi.
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