Furti e altri misfatti di Filomena, la terribile: il "Grande Gatsby" al femminile in Valsesia
Frequentava i salotti più in della Valle. Sguardo furtivo, astuzia da vendere e grande eleganza. Poteva rinunciare ad un piatto di minestra ma alle belle vesti non riusciva proprio a rimaner senza. E con il tempo, la sua storia passata, la sua vita tra le righe più povere di un piccolo borgo valsesiano si iniziò a mescolare con una immaginaria infanzia che lei si era costruita con il passare degli anni.
Tutto cominciò quando prese servizio dalla famiglia Soleri. La signora di casa sfoggiava sempre abiti meravigliosi. I colori sensazionali uniti alle fatture incredibilmente di moda per il tempo, facevano sempre brillare gli occhi a Filomena. Spesso la padrona doveva "svegliarla" da quei suoi sogni ad occhi aperti: "Hei tu, che fai lì impalata?" Sentendo quelle poche parole, la giovane si rinsaviva rapidamente per continuare a lucidare i marmi dei pavimenti della casa.
Il proposito di diventare una signora continuò a crescrere come un seme in un campo di grano. Il problema era uno: per la società in cui viveva, se non eri di "rango", non potevi neppure pensare ad una ascesa nell'alta società. "Potresti far finta di esser ricca", disse un pomeriggio di maggio la sarta scherzando con la ragazzina.
"Far finta di esserlo", continuò a ripeter nella testa Filomena. Quello era il punto. Quello era il proposito a cui mirare. E così cominciò ad osservare bene i modi di fare degli ospiti dei suoi padroni e ne imitava i gesti prima di andare a dormire nella stanzetta riservata a lei, lontano da occhi indiscreti.
La natura aiutò la ragazzina. Quando infatti divenne donna, la sua bellezza non riusciva a passare inosservata. "Chi è quella che pulisce l'androne", chiese un giorno Filiberto di Remì al commendator Soleri. "E' Emilia, la nostra serva". Quelle parole arrivarono forti e chiare alla ragazza come una freccia scagliata dritta al cuore. Fu quella la "goccia" che un giorno fece traboccare il vaso.
Decise innanzitutto che il suo nome doveva essere nuovo. Più nobile e ricco. Scelse Filomena e con il nome lasciò anche la sua vecchia dimora, senza però portarsi via qualcosa di utile. Approfittando dell'uscita a caccia dei padroni, prese un paio di abiti della signora e un mazzetto di soldi. Il tutto piegato in una valigia talmente piccola che i lembi delle vesti fuoriuscivano. Quindi fuggì sulla prima carrozza in partenza da Borgosesia per arrivare a Magenta, dove viveva una cugina della madre. Non le raccontò molto, le disse solo che aveva bisogno una stanzetta. Le trovò un ripostiglio di una osteria in un paese dimenticato persino da Dio. Nessuno avrebbe immaginato che quello sarebbe stato il trampolino di lancio della signora Filomena dalla Valle Sesia.
L'apparenza: quella era il motore della sua vita e per renderla sempre più grande doveva avere materiale per sostenere la sua bella vita. E per farlo: rubava. Rubava ogni cosa, e trasformava. Un giorno dal negozio di frutta e verdura del paese portò via castagne e barattoli di miele. E in quel ripostiglio li trasformava in vasetti di leccornie da vendere. Portò via la stoffa pregiata custodita nei magazzini delle botteghe. Cuciva e ricuciva per poi rivendere. Insomma, Filomena si ingegnò molto ma la cleptomania iniziò a scorrerle nelle vene in maniera inaudita. Ed iniziò anche a farsi conoscere. "Filomena, è un piacere finalmente conoscerla": erano soliti dire i gentiluomini dell'alta società ai banchetti dei gran galà. Lei adorava lo sfarzo e quelle attenzioni al punto che non si sa bene come riuscì prima a comprare una villetta, poi una carrozza. Soldi, prestigio e attenzioni: queste erano le parole d'ordine.
Se non chè, un giorno un investigatore la iniziò a controllare. Qualcosa in lei non tornava. Le indagini proseguirono e proprio quell'uomo si avvicinò a Filomena . Cercò di capirla, di osservarla e di afferarne i gesti.
Una sera d'autunno riguardando gli appunti al chiarore di una candela, capiì che dietro a Filomena c'era altro. C'era in realtà Emilia che non era assolutamente facoltosa, ma tra le più umili ladre che avesse mai conosciuto. E così la denunciò. Il procedimento proseguì e come da prassi nell'Ottocento il Tribunale di Varallo decise di sottoporla a sorveglianza speciale. Un agente dalla sera alla mattina la teneva sotto controllo. Filomena cercò di ribellarsi scappando. E le contravvenzioni per aver cercato di sfuggire alla vigilanza speciale, fioccarono.
Sino a che un giorno, come accadde a Gatby, qualcuno si presentò di fronte a lei. Un uomo. Distinto. Curato. Estremamente raffinato. Vestito di tutto punto. L'investigatore che divenne ossessionato da lei estrasse una pistola. Un colpo, diritto al cuore. Il suono del proiettile si diffuse sino ad arrivare nel piccolo paese in cui era nata. E sotto il tonfo del corpo sul pavimento della sala del palace di Stresa scomparve anche il nome di Filomena nel corso dei secoli.
Questo breve racconto si ispira alle vicende di una donna realmente esistita e vissuta nella prima metà dell'Ottocento tra Cellio e Borgosesia. Era una ladra "pressochè" seriale e di umilissime origini. Non riuscì come Filomena a diventar ricca ma spesso venne chiamata in Tribunale e la sua fine non fu certamente delle più rosee.
Foto Pixabay
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