Gli scapin dello tschàpter e altre storie
Un soffio di vento. Un brivido. Raggi di sole. Occhi si aprono. Uno sguardo. Il Roncaccio Inferiore.
Il Roncaccio Superiore, la Dorchetta, e in lontananza la chiesa della frazione Centro.
«Non ci credo, sono davvero qui!», pensò continuando a guardarsi intorno. E in quell'istante vide
arrivare accanto a lei un uomo con un sorriso timido e in mano un paio di scapin; non aveva dubbi,
era proprio lui.
«Ciao Tschàpter», disse ad Egidio.
«Anna Maria, tu?»
Lei sorrise e prese un fazzoletto di stoffa che aveva nel grembiule.
«Ma tu non eri...»
«Si, si, dillo pure. Anzi, facciamo una bella cosa lo dico io: sono andata in cielo, però l'altro giorno
ho chiesto se potevo venire a rivedere la mia bella Rimella, i miei prati, la mia gente».
«Eh, allora siamo in due. Mi sono allontanato giusto un mese fa, ma sono sempre qui, non è che
vado lontano. Però vai a spiegarlo al Manuele, il mio nipotino. Sono sere che lo sento piangere nel
mio laboratorio. L'anno scorso gli avevo insegnato a fare la sua prima schokka o scapin, vedi te
come chiamarla, e gli piaceva».
«La schokka, si, si, mi ricordo. Tua figlia Giovanna me lo aveva raccontato».
«Pensa che un giorno mi ha anche detto: “Quando divento grande voglio essere un ciabattino, ma
non normale, walser come te!” e io allora gli insegnai come si chiama il ciabattino in titzschu:
“Allora sarai uno tschapter”, gli dissi. Ricordo che mi faceva sorridere mentre si cimentava con quel nome, provando e riprovando anche ad imparare il mestiere».
«Che bravo ragazzino! E allora che facciamo qui, avviciniamoci».
Il vento si alzò muovendo le chiome degli alberi e gli steli dell'erba nei prati del paese. Una donna
stava battendo la lama della falce per renderla più tagliente. E in un secondo momento, prese in
spalla una gerla e cominciò ad incamminarsi verso le ripe del paese. Falciava senza sosta e in un
secondo momento raccoglieva tutto nella sua cesta di vimini. Prendeva in braccio quella gerla
pesante che le incurvava la schiena e si dirigeva a casa a controllare i figli ormai grandi, intenti a
mungere le mucche.
«Anna Maria, sei tu quella», sussurrò Egidio. Era lei, anni fa, quando oltre ad essere una donna di montagna era stata anche una mamma capace di crescere cinque figli, badando agli animali, ai campi e alla sua casa. Una lacrima le scivolò sul volto, ma subito alzò lo sguardo
verso i suoi monti e ritornò a respirare.
«Quanto lavoro che ho fatto e guarda là le mie pesti, la fontana, il ballatoio, la stufa. La mia felicità
l'ho sempre trovata dove ho vissuto, nei miei figli e nelle montagne. Pensa che l'unico viaggio che
ho mai fatto, oltre a quello che anche tu sai, è stato andare a Lourdes, altrimenti, niente: ma non
perché non volessi andare, ma perché il posto migliore in cui potevo stare era casa mia e la mia
Rimella. E poi prima di partire sì, sono andata a salutare tutti».
«Eh l'avevo letto sul giornale...».
«Le gambe non funzionavano mica come quando andavo in giro per le rive o mungevo le mucche,
però mi sentivo che stavo per lasciare per un po' di tempo la mia Valle, e così mi resi conto che
l'unica cosa che mi serviva era uno sguardo ai monti, e ai miei prati. E allora anche se per qualche
settimana mi ero messa a letto, con dei dolori del Diavolo, alla fine mi sono tirata su, nonostante il
divieto delle mie figlie. Ho preso quel trabiccolo di ferro e sono uscita di casa. Sono andata alla
fontanina di pietra vicino alla porta della Maria. Ho guardato le mie cime, le case, e poi ricordo solo
che è arrivata una folata di vento, freddo, era novembre; alcune foglie mi sono scivolate in testa e io
ho chiuso gli occhi e mi sono trovata Su».
«Anche io ho guardato le montagne prima di incamminarmi – riprese Egidio -. Da poco era iniziata
la primavera e mi era salito un freddo addosso. Mi alzai dal letto, mentre mia moglie era in cucina
che preparava la colazione, e andai nel mio laboratorio dove avevo da poco finito un nuovo paio di
scapin che avrei dovuto donare alla principessa Selena di Svezia, in visita ad Alagna il giorno dopo.
Ero sicuro di aver lasciato una coperta pesante e infatti la trovai sul mio tavolo da lavoro. La misi sulle spalle e guardai le shoccke. Erano venute proprio bene, le toccai, era morbide, la punta bella
quadrata e la stoffa calda. Ad un certo punto però uno spiffero mi convinse ad avvicinarmi alla
finestra. Guardai fuori e vidi il Roncaccio superiore. E poi non ricordo nulla, mi risvegliai Là, dove
ti sei svegliata tu».
Si scambiarono uno sguardo. Lei era stata una instancabile lavoratrice, conosciuta da tutti in paese
per la sua generosità; era talmente di buon cuore che se qualcuno le chiedeva qualcosa, era anche
pronta a privarsene per donarla. Seppur un po' grezza come la roccia del Monte Rosa, infondeva
serenità a tutti con i suoi proverbi e la sua saggezza. Lui invece era un ciabattino il cui nome era
associato alla caratteristica calzatura dell'Alta Valsesia: i suoi infatti non erano semplici prodotti
artigianali, ma opere create con attenzione, cura e amore. In Valle tutti avevano almeno un paio di
scapin delloTschàpter, come amava farsi chiamare. E in molti sono stati i turisti che raggiunta la
località montana si sono fatti confezionare la calzatura. Egidio e Anna Maria erano tanto diversi, nei
mestieri, ma simili nell'attaccamento verso la loro terra.
«Avviciniamoci ancora, guarda tuo nipote, sta salendo nel tuo laboratorio», bisbigliò Anna Maria. I
rami del glicine si muovevano dolcemente mentre nelle persiane oltrepassava un raggio di sole.
«Nonno, ho seguito tutti i tuoi consigli, guarda che belle...», disse tra sé e sé il giovane. Egidio vide
la scena e sentì le parole di Manuele. Dopo aver osservato quegli scapin così curati, color bordeaux
il nonno fece l'unica cosa che gli era consentita fare: sussurrò al cuore del nipote quanto era
orgoglioso di lui, quanto era felice del risultato di mesi di lavoro. Infine gli lasciò un consiglio, che
aveva suggerito Anna Maria: «Ricordati sempre Manuele di circondarti della felicità che sta nelle
piccole cose, nella quotidianità e in coloro che ti vogliono bene, e quando ti senti perso, guarda la
montagna, lei sa sempre indicarti la strada». Mentre osservava quel lavoro, durato diverse
settimane, Manuele sentì che il cuore stava battendo in maniera profonda e la serenità attraversare il
suo corpo fino a sbocciare in un sorriso improvviso. “Grazie nonno”, pensò.
Nuvole cariche di pioggia stavano per riempire il cielo. Un tuono scosse la terra. E la pioggia iniziò
a ticchettare sui tetti in beola.
In ricordo di due persone che sono state anime della montagna.
Foto dal web
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Meraviglioso, le lagrime scendono a fiotti, attraverso vie misteriose ed invisibili il racconto mi ha toccato nel profondo del cuore
RispondiEliminaSapere che una briciola ha suscitato così grandi emozioni mi commuove! Grazie Giampy! :)
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